Nove anni dopo l’arbitrato sul Mar Cinese Meridionale

La sentenza del tribunale arbitrale del 2016 non ha risolto la disputa tra Filippine e Cina: un caso emblematico che mostra come il diritto internazionale, senza volontà politica, rischi di restare lettera morta.

Il 12 luglio 2016, il tribunale arbitrale istituito secondo l’UNCLOS (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare) emise una sentenza storica: bocciò senza appello la legittimità della “nine-dash line” e dei diritti storici rivendicati dalla Cina nel Mar Cinese Meridionale. Nove anni dopo, quella decisione, giuridicamente cristallina, non ha cambiato la sostanza del contenzioso tra Pechino e Manila, né ha portato maggiore stabilità nella regione.

The 2016 South China Sea Arbitration

La Cina, fin dall’inizio, ha adottato la linea del “non riconoscimento e non accettazione”, definendo la sentenza “carta straccia, nulla e priva di effetti”. Mentre le Filippine e partner esterni come Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Germania, Australia e Canada continuano a commemorare l’anniversario del lodo, la maggior parte degli Stati del Sud-Est asiatico ha scelto il silenzio. Questo atteggiamento prudente riflette la consapevolezza dei limiti del diritto internazionale: senza l’adesione dei principali attori, anche le decisioni più solide restano inapplicate.

Il caso del Mar Cinese Meridionale non è isolato. Le recenti vicende dell’International Criminal Court (ICC) mostrano come la mancanza di volontà politica possa svuotare di efficacia anche provvedimenti clamorosi: l’arresto di Vladimir Putin per crimini di guerra in Ucraina non ha impedito al leader russo di recarsi in Cina e perfino in Mongolia, Stato membro della Corte. Analogamente, Benjamin Netanyahu, destinatario di un mandato della ICC, ha potuto visitare l’Ungheria senza conseguenze.

Paradossalmente, l’unico arresto eseguito – quello dell’ex presidente filippino Rodrigo Duterte, avvenuto nel marzo 2025 – non è stato dettato da un obbligo giuridico, visto che le Filippine avevano lasciato la Corte, ma piuttosto da un calcolo politico interno: l’interesse del presidente Marcos Jr. di colpire il rivale Duterte. Questo conferma che il diritto internazionale, per tradursi in fatti, necessita di convergenza con interessi strategici e volontà politiche.

Nel caso del Mar Cinese Meridionale, manca esattamente questa convergenza. In Cina, la questione territoriale è percepita come un tema d’identità nazionale, segnato dal trauma storico delle umiliazioni coloniali. Accettare la sentenza del 2016 sarebbe politicamente impensabile. A livello regionale, l’ASEAN non ha mai espresso una posizione unitaria sulla questione: già nel 2016, poche ore dopo aver diffuso una dichiarazione critica verso Pechino, i ministri degli Esteri ASEAN la ritirarono per “modifiche urgenti”. Oggi, dopo nove anni, il blocco resta diviso.

In conclusione, il lodo del 2016 ha avuto un valore importante nel definire parametri giuridici, ma non è stato sufficiente a cambiare la realtà. Senza un dialogo sincero, riconoscimento reciproco delle esigenze vitali e un impegno diplomatico costante, il diritto resta una cornice: utile per dare legittimità, ma impotente senza politica. Per stabilizzare davvero il Mar Cinese Meridionale, serve che Pechino e Manila tornino a trattare, superando logiche di scontro e cercando compromessi realistici.


Per approfondire

  • Robert Beckman e Clive Schofield, Limits of Maritime Jurisdiction

  • Bill Hayton, The South China Sea: The Struggle for Power in Asia

  • Stefan Talmon e Bing Bing Jia, The South China Sea Arbitration: A Chinese Perspective

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