Le autorità israeliane e gli organizzatori offrono versioni contrapposte sul destino dei carichi umanitari.
Navigando nel web, sorprendentemente, si trova pochissimo riguardo ai carichi di aiuti umanitari che le navi della Global Sumud Flotilla avrebbero dovuto trasportare verso Gaza. La maggior parte delle informazioni disponibili riguarda esclusivamente gli equipaggi e gli attivisti a bordo, mentre il destino delle merci rimane un mistero.
Alcune dichiarazioni israeliane riportate da media parlano di quantità minime di aiuti, «tanto esigue da non riempire neppure un camion», a fronte di una flottiglia composta da ben 52 imbarcazioni. Una cifra che appare insignificante se confrontata con la portata della missione.
In risposta, la Global Sumud Flotilla ha diffuso un comunicato ufficiale in cui respinge le accuse israeliane: le imbarcazioni dirette a Gaza «sono state accuratamente documentate, cariche di forniture mediche, cibo e altri beni vitali». Tuttavia, il comunicato non specifica dove e come siano state documentate queste forniture.
Unica eccezione visibile sono alcune fotografie pubblicate dal sito Radio Bullets, che mostrano bancali di aiuti destinati ai gazawi. Anche in questo caso non è chiaro se i beni siano già a bordo delle navi o ancora nei magazzini di partenza.
La Flotilla ribadisce che la sua missione non si limita al trasporto di aiuti, ma mira a «spezzare il blocco e aprire un corridoio umanitario stabile e continuo». Gli aiuti trasportati erano reali e urgenti, spiegano gli organizzatori, ma rappresentano solo una frazione di ciò che sarebbe necessario per la popolazione di Gaza. «Le navi civili non possono trasportare la quantità di aiuti necessaria: questo sarà possibile solo una volta revocato il blocco», si legge nel comunicato.
Resta dunque aperta una domanda cruciale: dove sono finiti questi aiuti? Dopo l’abbordaggio da parte dell’esercito israeliano, le navi sono state condotte verso il porto di Ashdod per l’ispezione. Le autorità israeliane affermano che, al termine dei controlli, non è stato trovato alcun aiuto umanitario, mentre gli organizzatori insistono sul fatto che le navi erano cariche.
In assenza di un inventario indipendente e verificabile, le due versioni rimangono contrapposte. Gli aiuti potrebbero essere sotto custodia israeliana ad Ashdod, oppure — nel caso in cui le accuse israeliane fossero corrette — la missione avrebbe avuto un valore principalmente simbolico.
Quel che resta evidente è la complessità e l’ambiguità della situazione: in un contesto di blocco navale, tensioni militari e restrizioni stringenti, il destino degli aiuti umanitari rimane un enigma. Gran parte dell’assistenza internazionale segue percorsi ufficiali, controllati e verificabili, mentre missioni come la Flotilla scelgono vie alternative, dirette e spesso rischiose, per aggirare il blocco. Questo solleva interrogativi profondi: quanto conta la visibilità della solidarietà rispetto alla sua reale efficacia? Quante vite avrebbero potuto alleviare questi beni? E, soprattutto, chi ha il diritto e la responsabilità di garantire che l’assistenza raggiunga chi ne ha più bisogno, quando i canali ufficiali risultano lenti o insufficienti?
Forse la domanda più urgente non è se le navi fossero davvero cariche, ma perché, anche di fronte a emergenze evidenti, il percorso della solidarietà resta così incerto, frammentato e politicizzato. E mentre i governi discutono, i blocchi persistono e le navi vengono fermate, rimane una certezza inquietante: chi soffre non ha tempo per attendere mediazioni o verifiche, e la differenza tra simbolo e sostanza può significare vite perdute.


